Piccoli Borghi (RI)Crescono

 

Voce del verbo “abitare” nel Bel Paese nell’ultimo mezzo secolo

Nel settembre del ’69 il direttore della Gazzetta del Popolo scrive: «La città scoppia. Si moltiplicano i posti di lavoro, ma mancano le case, i servizi, i trasporti, le fognature, le scuole, gli ospedali, le biblioteche. I pendolari perdono ogni giorno ore e ore, che per loro sono ore di lavoro.

A cinquant’anni di distanza la situazione è diametralmente opposta: le case ci sono, tantissime, troppe, la popolazione ha smesso di crescere e il lavoro, invece, non c’è.

Poi, nel 2008, il crollo. In un paese che già conta milioni di abitazioni in più, si svuotano anche i molti edifici messi in vendita, per cui bisognerebbe trovare un nuovo uso, una nuova funzione, oltre che nuovi acquirenti. Ma come continuare a estrarre vecchia e nuova rendita da edifici vuoti, dalle seconde case, dalle case in centro, quando gli italiani, se lo hanno, hanno un reddito da fame? È cambiato il paradigma: «non sono più tanto i fattori come il reddito, la ricchezza o i consumi a influire sulle performance dei mercati, quanto l’attrattività dei territori nei confronti di residenti, imprese e turisti» ci informa Nomisma.

Le strategie di sviluppo sono sempre più diseguali e i mercati locali riflettono i divari territoriali: «a differenza dei periodi precedenti quando i mercati più performanti riuscivano a trainare gli altri, adesso la spinta espansiva è condizionata molto dalla vitalità economica del contesto» certifica ancora Nomisma. Senza un piano strategico di politica industriale, in calo demografico e con un alto tasso di invecchiamento della popolazione, gran parte dell’Italia si è svuotata.

È l’Italia delle scorciatoie: dopo che si è privatizzato tutto il privatizzabile, si sono smantellati, decentralizzati e dismessi i grandi poli produttivi, non si è investito in ricerca, in tecnologie, dopo che si è preferito esternalizzare tutto, è rimasto solo il turismo: l’ultimo anello, il più povero, della catena di produzione, che estrae ricchezza dai territori. Con una domanda interna distrutta dalle politiche di consolidamento fiscale, si punta sulla domanda estera: il Made in Italy per ricchi stranieri che vengono in Italia, o che ordinano i nostri prodotti all’estero. Nel 2020 l’Italia è un paese di cuochi, di camerieri, e di affittacamere.

I Piccoli borghi: l’occasione di ripartire

L’emergenza COVID ha puntato i riflettori sui piccoli borghi dimenticati d’Italia, rilanciando le opportunità che possono offrire per il “buon vivere”, rispetto alle città, diventate luoghi di assenza e segregazione durante il lockdown imposto per la pandemia. Massimiliano Fuksas e Stefano Boeri, hanno avvertito l’urgenza di ricordare che ci sono agglomerati di case abbandonati, in Italia, una volta resi vitali da chi li abitava, e ora lasciati soli di fronte all’oblio e all’incuria del tempo.

I centri sotto i 5.000 abitanti rappresentano quasi il 70% del totale dei comuni italiani. Secondo la ricerca sul disagio insediativo, presentata da Legambiente e Unioncamere, ci sono ben 2.666 paesi in una situazione difficile dal punto di vista demografico ed economico; un quarto della superficie italiana rischia di rimanere fuori da opportunità di sviluppo. Piccoli borghi silenziosi che risalgono dal dimenticatoio in occasione di catastrofi, come il terremoto del 2016 in Centro Italia o la recente emergenza sanitaria legata al COVID-19, o quando la politica decide di ricordarsi di loro, principalmente in occasione di progetti calati dall’alto che consentono di distribuire, canalizzandole, risorse pubbliche.

Gli appelli pubblici, rilanciati da Fuksas e Boeri, su quanto si viva meglio nei borghi, per qualità della vita e grazie all’ausilio delle tecnologie che ormai permettono di lavorare ovunque, rischiano di raccontare più un auspicio che non la realtà, poiché appaiono sganciati dalle dinamiche reali dell’esistenza concreta, dove tutto si riduce a una dimensione più umana, grazie agli spazi dilatati e alla scarsità di presenze: secondo la ricerca di Legambiente e Unioncamere, tra il 1996-2016 sono stati 1650 i paesi abbandonati al loro destino, nonostante leggi e misure varate ad hoc (legge n. 97 del 1994 sul rilancio delle comunità montane; legge 6 ottobre 2017, n. 158 per il sostegno e la valorizzazione dei piccoli comuni).

Uno sguardo generale dal “piccolo” cannocchiale

La conformazione puntiforme dei piccoli borghi non agevola il fare squadra, né la sintesi intorno a temi e problemi comuni, rendendo difficile la formazione di quella massa critica fondamentale per entrare nella scena del dibattito pubblico. La povertà infrastrutturale rende complicati i collegamenti e gli spostamenti, impedendo di scorgere il dinamismo, la contaminazione culturale e sociale e l’innovazione, che permeano i centri maggiori.
Diventa così centrale il ruolo delle comunità, la necessità di alimentare la loro consapevolezza delle potenzialità dei luoghi in cui vivono. Il COVID-19 ha proiettato l’intera nazione nel futuro prossimo venturo, con lo smart working che ha reso concreta la possibilità di lavorare ovunque. La banda larga potrebbe rendere raggiungibili e abitabili luoghi decentrati, superando ataviche barriere infrastrutturali, ma per ottenere comunità funzionali e vive, serve entrare nella logica di guardare ai problemi concreti, costruendo soluzioni a partire dalle risorse esistenti e dalle peculiarità locali.

Parola chiave: autodeterminazione delle comunità

Per avere una svolta serve una piccola rivoluzione. Per modificare un destino che appare segnato si devono attuare azioni di coordinamento dal basso, raccogliendo le voci, i desideri, le istanze, le idee dei cittadini dei piccoli comuni, perché non si può prescindere dall’aspetto essenziale dell’autodeterminazione delle comunità locali, modificando la naturale propensione al senso del ritorno, piuttosto che allo slancio in avanti.

La parola ai Piccoli Borghi

Se da un lato, la pandemia globale – che ci ha sorpresi e spiazzati all’inizio del 2020 – ha posto l’evidenza sulla necessità di spazi vitali, di dinamiche umanamente affrontabili, sul valore della lentezza, sul consumo dell’essenziale, sullo spazio della natura, sull’imprescindibilità delle relazioni fisiche (incontrarsi, abbracciarsi), dall’altro non può dirsi che ben prima dell’emergenza COVID-19, non ci fosse già un lavoro in e con l’Italia Piccola: tanti sono gli irriducibili “sognatori ad occhi aperti” che da anni hanno intrapreso ciascuno e poi insieme un lavoro faticoso di riscoperta della slowlife, quella da cui in tanti sono scappati per raggiungere le grandi città, agognate mete zampillanti di possibilità e di futuro, portando una foto del paesino, divenuto simbolo del passato. L’obiettivo di questo alacre lavoro è quello di far incontrare oggi, nel presente, passato e futuro.
Il sogno ad occhi aperti, non risponde soltanto ad un afflato romantico, ma tiene insieme le grandi crisi del nostro tempo: ambientale, sociale, economica, sfaccettature di una medesima crisi, che va affrontata nella sua complessità, cercando risposte e soluzioni complesse.
«Che il futuro sia nei borghi come dice Stefano Boeri – dice Marco Bussone, presidente di Uncem è essenziale nella logica del risparmio del consumo di suolo, dell’efficienza energetica, di una rifunzionalizzazione degli spazi, di economie circolari che sappiano dare risposte alla crisi climatica e non soltanto alla crisi della pandemia che stiamo affrontand

L’Associazione dei borghi più belli d’Italia, che dal 2001 rappresenta oltre 300 borghi sotto i 15mila abitanti, riassume in quattro punti le sue proposte:

  • riqualificazione;
  • messa in sicurezza dagli eventi naturali quali terremoti, smottamenti e alluvioni;
  • recupero del patrimonio artistico e architettonico;
  • rigenerazione del tessuto commerciale e turistico di prossimità,

per abbandonare il concetto di “seconda casa” e recuperare quello di “abitare un luogo per viverci e lavorare”.

A tal proposito, Fiorello Primi, presidente dell’associazione dei borghi: «Ora, con l’emergenza coronavirus, i nostri borghi diventeranno più appetibili anche per il turismo, poiché si cercheranno luoghi meno affollati, ma il nostro ruolo non è soltanto quello di offrire località di villeggiatura. Da tempo studiamo soluzioni per incentivare nuovi residenti, che non possono essere soltanto le “case a un euro”. I borghi rivivono se i giovani possono venire a viverci stabilmente perché possono lavorarci. Per questo è indispensabile superare il digital divide e recuperare il patrimonio pubblico da offrire a chi apre nuove attività per quello che chiamo artigianato 4.0».

La presidente dell’Associazione borghi autentici d’Italia, Rosanna Mazzia osserva: «I borghi italiani sono la spina dorsale del nostro Paese, sono luoghi in cui si vive meglio e diversamente dalle grandi città, a misura d’uomo; sono luoghi del pensiero e della lentezza, quella lentezza che rappresenta la cifra dell’Italia artigianale, dell’agricoltura di qualità, della tutela della biodiversità, del paesaggio sospeso tra città e campagna, tra mare ed entroterra. Sono questi concetti che tuteliamo e diffondiamo come associazione per rendere sempre più attraente vivere in questi luoghi spesso periferici. Solo da qualche anno i borghi italiani sono stati rivalutati, perlopiù come luoghi da visitare per le vacanze e in effetti in numerosissimi borghi non vi sono ancora le condizioni necessarie per decidere di trasferire la propria residenza o il lavoro, soprattutto quello smart».